giovedì 29 gennaio 2009

“MENS SANA IN CORPORE SANO” (*)

LA PRATICA SPORTIVA PER LA PROMOZIONE DEL BENESSERE E DELLA SALUTE
(e le ricadute di carattere sociale, ovvero le responsabilità della politica)

La prima parte di questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Asclepiadi" numero 15 - ottobre 2008.

(*) Locuzione latina del poeta Giovenale (Satire, X, 356): La satira decima di Giovenale è tutta volta a mostrare la vanità dei valori o dei beni che gli uomini cercano con ogni mezzo di ottenere: ricchezza, fama, onore… Ma tutto ciò è effimero e, talvolta, anche dannoso. Nell'intenzione del poeta, l'uomo non dovrebbe aspirare che a due beni soltanto, la sanità dell'anima e la salute del corpo. Nell'uso moderno si attribuisce invece alla frase un senso diverso, intendendo che, per aver sane le facoltà della mente bisogna aver sane anche quelle del corpo (da Wikipedia).

Nell’agosto scorso si sono svolte, in Cina, le XXIX olimpiadi dell’era moderna, ovvero l’evento sportivo più importante che si svolge sul pianeta, con la partecipazione di tutte le nazioni del Mondo impegnate in quasi tutte le discipline sportive, da quelle più antiche (come l’atletica e la lotta) a quelle più nuove (come quelle che utilizzano pistole e carabine di precisione). Si tratta della massima espressione dello “spirito competitivo” insito nella natura umana, sia pure incanalato e disciplinato con le regole dello sport.
Ma le olimpiadi, che dovrebbero essere del tutto apolitiche, in realtà, sono anche un grande evento politico. E come nella Berlino hitleriana nel 1936, a Città del Messico nel 1968, e a Mosca nel 1980, grazie all’impatto sull’opinione pubblica e alle imprese degli atleti di casa, le olimpiadi in Cina sono state anche strumento di rafforzamento di un regime che nega fondamentali diritti dell’uomo.
Ma, grazie alle iniziative di Amnesty International e di altre associazioni ed organizzazioni internazionali, sono state, di contro, pure l’occasione per una campagna mondiale per chiedere alla Cina l'adozione e l'attuazione di riforme significative nel campo dei diritti umani, anche in considerazione dell'impegno che la stessa Cina si è assunta di fronte al Comitato olimpico internazionale (Cio). Infatti, quando nell'aprile 2001 fu scelta Pechino per le olimpiadi del 2008, Kiu Jingmin, vicepresidente del Comitato promotore di Pechino 2008, aveva affermato: "assegnando a Pechino i Giochi, aiuterete lo sviluppo dei diritti umani". E ancora, Wang Wei, Segretario generale del Comitato promotore di Pechino 2008, aggiunse: "garantiremo completa libertà d'informazione ai giornalisti che verranno in Cina. Abbiamo fiducia nel fatto che i Giochi non solo promuoveranno la nostra economia ma miglioreranno tutte le condizioni sociali, compresa l'educazione, la salute e i diritti umani".
In realtà, nonostante alcune riforme in tema di pena di morte e di maggiore libertà di stampa per i media internazionali, questo impegno non è stato rispettato, anche in conseguenza della timidezza nel pretenderne il rispetto da parte dei governi degli Stati partecipanti e dello stesso CIO, che ha chiaramente lasciato intendere che le condizioni politiche e sociali in Cina erano meno importanti dello stato degli impianti e delle strutture per gli atleti. Delle richieste di Amnesty International (adottare provvedimenti per la riduzione significativa dell'applicazione della pena di morte, come primo passo verso la sua completa abolizione - applicare tutte le forme di detenzione in accordo con le norme e gli standard internazionali sui diritti umani e introdurre misure che tutelino il diritto a un processo equo e prevengano la tortura - garantire piena libertà d'azione ai difensori dei diritti umani, ponendo fine a minacce, intimidazioni, arresti e condanne nei loro confronti - porre fine alla censura, soprattutto nei confronti degli utenti di Internet), nulla è stato fatto. Anzi, nessuna manifestazione di protesta è stata autorizzata durante lo svolgimento dei giochi, e chi ne ha fatto richiesta è stato immediatamente arrestato, così come coloro, anche cittadini stranieri, poi immediatamente espulsi, che hanno osato manifestare in assenza di autorizzazione.
Pechino, dunque, ha sbalordito per lo sforzo organizzativo e per l’impegno economico dedicati ai giochi (40 miliardi di dollari per mostrare al mondo la faccia moderna della potenza cinese), ma è venuta meno alle promesse di migliorare la situazione dei diritti umani, tradendo in questo modo i valori fondamentali dell'olimpismo.

Da Amnesty International:
In Cina la pena di morte resta prevista per 68 reati, compresi crimini di natura economica, o connessi alla droga, che non comportano il ricorso alla violenza, e, nonostante la Cina dichiari che il numero delle esecuzioni è diminuito da quando la Corte suprema del popolo ha ripristinato il suo potere di revisione delle condanne a morte, le autorità cinesi continuano a non pubblicare alcun dato sulle esecuzioni, che dovrebbero comunque essere più di 5000 ogni anno.
L'attivista e scrittore Hu Jia continua a scontare una condanna per "incitamento alla sovversione", per aver scritto articoli e rilasciato interviste alla stampa estera sui diritti umani: ha problemi al fegato, a causa dell'epatite B, ma le autorità impediscono ai suoi familiari di fargli arrivare le medicine necessarie.
A giugno, la polizia ha arrestato l'attivista per i diritti umani del Sichuan, Huang Qi, con l'accusa di "essere entrato illegalmente in possesso di segreti di Stato". Huang stava fornendo assistenza legale alle famiglie di cinque alunni morti a seguito del crollo di una scuola elementare nel terremoto di maggio.
Liu Jie, un'attivista per il diritto alla terra, sta scontando un periodo di 18 mesi di "rieducazione attraverso il lavoro" nella provincia dell'Heilongjiang (Cina nord-orientale); secondo fonti locali, è stata sottoposta a violenze fisiche per aver lanciato una campagna in favore di riforme politiche e legali, tra cui l'abolizione della stessa "rieducazione attraverso il lavoro".
I giochi hanno raccontato una Cina diversa da quella che albergava nell’immaginario occidentale, più avanzata economicamente e tecnologicamente di quanto si potesse credere, e con un partito comunista senza ideali, ormai convertito in un’azienda che gestisce i soldi dello stato.
I cinesi si sono esaltati per le imprese dei propri atleti, ma i media e il regime hanno strumentalmente confuso il comprensibile entusiasmo nazionalista con l’approvazione politica, senza tuttavia riuscire ad attenuare l’immagine di un paese chiuso persino ai propri cittadini, dove i divieti e le limitazioni sono a volte insensati, e qualunque forma di dissenso porta immediatamente a limitazioni delle libertà personali o all’esilio, come quello di Wang Dan, a lungo perseguitato in patria, ed ora professore di storia ad Harvard, che non ha ottenuto il visto per rientrare in occasione delle olimpiadi.
Nel riquadro sono riportati altri casi di dissidenti perseguitati dal regime cinese, ma almeno 500 cittadini sono sottoposti a pene detentive senza alcuna accusa né processo.
Nel periodo che ha preceduto i Giochi, le autorità cinesi hanno imprigionato, posto agli arresti domiciliari o allontanato a forza chiunque avesse potuto minacciare l'immagine di "stabilità" e "armonia" che intendevano presentare al mondo, hanno abbattuto vecchie case scacciandone in malo nodo gli abitanti (per realizzare nuove strade ed eliminare edifici fatiscenti, poco consoni all’immagine della città), hanno chiuso fabbriche e hanno vietato l’uso delle automobili private (per ridurre i terribili livelli di inquinamento), hanno obbligato artigiani e venditori ambulanti a lasciare Pechino, hanno costretto milioni di cittadini a tali e tanti disagi, divieti, costrizioni e rinunce che v’è davvero da dubitare che ricorderanno i giochi come un momento alto della loro storia.
Inoltre le autorità cinesi hanno esteso l'uso di forme punitive di detenzione amministrativa, tra cui la "rieducazione attraverso il lavoro" e la "riabilitazione forzata dalla droga", per "ripulire" Pechino prima dell'inizio delle Olimpiadi e tenere alla larga gli attivisti per tutta la durata dei Giochi; e ai giornalisti cinesi continua ad essere impedito di scrivere su argomenti giudicati sensibili dal governo.
In questa situazione, secondo Amnesty International, i leader mondiali che hanno assistito ai Giochi “avrebbero dovuto prendere pubblicamente posizione in favore dei diritti umani in Cina e appoggiare l'azione degli attivisti per i diritti umani. Non avendolo fatto hanno mandato al mondo il messaggio che è accettabile che un governo ospiti i Giochi olimpici in un'atmosfera di repressione e persecuzione".
In nome del business, e completamente soggiogati agli interessi delle multinazionali e degli sponsor, i capi di Stato e i Dirigenti dello sport mondiale non hanno mai trovato la forza, prima, durante o dopo lo svolgimento dei giochi, di far sentire la loro voce contro la violazione dei diritti umani in Cina.
D’altra parte, anche quando, dopo l’assegnazione dei Giochi Olimpici del 1936 a Berlino, e la successiva nomina di Hitler a Cancelliere, il CIO non ne volle sapere di spostare altrove le Olimpiadi, così come richiesto da più parti. Eppure lo stesso "Führer", inizialmente, non era per nulla contento di ospitare quello che definì un "indegno festival organizzato dagli ebrei". Poi i suoi gerarchi gli fecero notare che i Giochi rappresentavano una grande occasione per mostrare al mondo la potenza germanica e la superiorità degli atleti tedeschi e Hitler, ormai persuaso, per celebrare la pretesa superiorità della "razza ariana", non badò a spese: lo stadio e la piscina furono ampliati e gli atleti poterono godere di uno sfarzoso villaggio olimpico. Fu un'olimpiade organizzata perfettamente e, mai come prima, i Giochi coinvolsero il pubblico, con oltre quattro milioni di biglietti venduti; e chi non riuscì ad entrare negli stadi poté seguire le gare grazie a 25 innovativi maxi-schermi installati in diversi punti di Berlino. Come a Pechino, gli atleti di casa fecero la parte del leone nel medagliere, e solo nel calcio, nel polo e nel basket la Germania non salì sul podio.
Però non mancarono iniziative di dissenso da parte degli atleti, come quello di Jesse Owens: grazie alle quattro medaglie d'oro conquistate, il suo pugno teso contro Hitler e il razzismo resterà un'immagine simbolo del Novecento, e quell’atleta e uomo straordinario, sulla pista di Berlino e sul podio, più avanti e più in alto delle miserie di uomini che lo giudicavano inferiore, denunciò, insieme, il razzismo tedesco e le discriminazioni che i neri subivano nella sua patria, subendone poi le prevedibili conseguenze: il ritorno a casa fu amaro e, per una squalifica ingiusta, subito dopo il suo trionfo, fu costretto ad abbandonare lo sport praticato. Invece l'atleta tedesco e comunista Werner Seelenbinder, che aveva promesso un plateale gesto di dissenso nei confronti di Hitler in caso di vittoria nella gara di lotta greco-romana, non riuscì nel suo intento perché si piazzò solo quarto e non ebbe la possibilità di sfruttare la ribalta del podio.
Anche a Città del Messico, nel 1968, uno degli anni più difficili e turbolenti della storia recente, pochi mesi dopo l’invasione sovietica che represse la Primavera di Praga, nel bel mezzo della guerra in Vietnam, e nel pieno delle lotte antirazziste (fu l’anno dell’assassinio di Martin Luther King, che si batteva per ottenere l'uguaglianza tra bianchi e neri), lo svolgimento dei Giochi Olimpici fu condizionato da importanti vicende storiche: la cieca follia del governo messicano compì un’orrenda strage di studenti pochi giorni prima della cerimonia di inaugurazione olimpica. All’origine del massacro vi furono le incursioni dei poliziotti messicani nelle Università, alle quali gli studenti si opposero manifestando contro il presidente Diaz Ordaz e cercando di sfruttare l’attenzione del mondo per le imminenti olimpiadi. Il presidente-dittatore li accusò quindi di voler boicottare i Giochi con le loro proteste, e ordinò l’occupazione militare dell’Università di Città del Messico, con centinaia di arresti. Gli studenti organizzarono una manifestazione di protesta in Piazza Tre Culture, alla quale il governo rispose ordinando una vera e propria carneficina: la piazza fu bloccata in ogni accesso, e l’esercito sparò da elicotteri ed edifici adiacenti (come non pensare ai carri armati di Piazza Tiananmen?). Del massacro non si sono mai avute cifre ufficiali, ma si parlò di centinaia di morti. L’efferatezza dell’azione scosse l’opinione pubblica, e dappertutto vi furono manifestazioni per portare solidarietà ai ragazzi messicani. Eppure il CIO decise che, nonostante tutto, i Giochi si dovevano disputare regolarmente: una scelta che fece discutere. E anche qui, come a Berlino, non mancarono gesti clamorosi da parte degli atleti: Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nei 200 metri, salirono sul podio a piedi nudi sollevando il pugno e abbassando la testa quando venne issata la bandiera americana, in segno di protesta per la considerazione dei bianchi americani verso i neri considerati ancora come "animali, buoni unicamente per correre più velocemente oppure per saltare più in alto o più in lungo". E anche Lee Evans, Larry James e Ron Freeman, primo secondo e terzo nella 400 metri, salirono sul podio a piedi nudi, con il pugno alzato e con il basco scuro delle Pantere nere. I coraggiosi atleti protagonisti di questi gesti di grande valore sportivo e politico furono poi tutti sospesi dalla Federazione americana, esattamente come era capitato a Jesse Owens trentadue anni prima.
In Messico il regime militare sopravvisse alle olimpiadi per oltre 30 anni, fino a quando fu poi scalzato dal voto democratico, e ancora oggi la situazione politica non è del tutto stabilizzata: c’è da augurarsi che in Cina non debba passare così tanto tempo per una svolta.
I giochi del 1980 a Mosca, con il pretesto dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (una guerra che è andata avanti per tutti gli anni ottanta, provocando un milione e mezzo di morti), furono boicottati dagli Stati Uniti e da altri Paesi della NATO, ma solo perché si era in piena guerra fredda, mentre oggi, almeno fino alla recente crisi caucasica, le due ex superpotenze mondiali hanno tollerato vicendevolmente, se non addirittura appoggiato logisticamente, le rispettive politiche imperialiste e neo-colonialiste (Cecenia da una parte, Afghanistan ed Iraq dall’altra). E anche qui un cambiamento politico si è avuto solo molto dopo le olimpiadi, con la Perestroika di Gorbaciov e la caduta del muro di Berlino.
Parliamo dunque di ri-corsi storici, della ri-proposizione di debolezze ed errori che nulla sembrano aver insegnato. E così in Cina oggi, come in Germania nel 1936, alla negazione della democrazia, all’autoritarismo sanguinoso, ai crimini di regime, si aggiunge il silenzio e la complicità dei governi di quasi tutte le nazioni partecipanti, dagli Stati Uniti ai paesi dell’Unione Europea, e delle relative istituzioni sportive.
I leader politici europei e americani hanno troppo timore delle possibili ritorsioni cinesi in campo economico per potersi preoccupare del Tibet o delle discriminazioni contro i mussulmani Uiguri della provincia di Xinjiang, rifiutano persino di incontrare il Dalai Lama, e hanno fatto di tutto per evitare, o almeno circoscrivere, le manifestazioni di protesta nei loro paesi durante il passaggio della fiaccola olimpica, pur di non irritare, più dell’inevitabile, gli “amici” cinesi. Inoltre hanno chiaramente “fatto sapere” che non avrebbero nemmeno gradito che i propri atleti avessero manifestato, per esempio, la loro solidarietà al popolo tibetano. D’altra parte, anche gli stessi atleti hanno generalmente obiettato che, se non se ne occupano i politici, di questioni politiche, non vedevano proprio perché avrebbero dovuto farlo loro.
I media hanno solo mostrato ed esaltato le imprese dei campioni in gara e i risultati delle nazioni più medagliate: abbiamo visto e rivisto in TV l’impressionante e, per alcuni inquietante, facilità delle vittorie del velocista giamaicano Usain Bolt, che ha stracciato i record mondiali sia dei 100 che dei 200 metri, o le otto medaglie d’oro del nuotatore americano Michael Phelps, ed altre imprese sportive, ma non abbiamo saputo nulla delle condizioni di vita dei cinesi, né si sono viste proteste di cittadini cinesi (e mi è difficile credere che non ve ne siano state).
E’ stato dato grande risalto alle 51 medaglie d’oro degli atleti cinesi, 25 delle quali conquistate da “debuttanti” sbucati da chissà dove, del tutto sconosciuti prima dei giochi. I cinesi hanno fatto quasi il pieno nei tuffi e nella ginnastica, dove sono state viste gareggiare bambine che non sembravano proprio avere i 16 anni necessari per partecipare alle olimpiadi.
La Cina ha vinto anche 21 argenti e 28 bronzi, per un totale di 100 medaglie: un risultato assolutamente sorprendente, ma ancora più, secondo me, è sorprendente che, con poche eccezioni, tutti i vincitori delle medaglie olimpiche di Pechino, cinesi e non, hanno festeggiato sorridendo le loro vittorie, ignari, o indifferenti, del dolore e della disperazione della stragrande maggioranza dei “sudditi” del regime cinese, inclusi, forse, gli stessi atleti in gara, a cominciare dalle “bambine” della ginnastica. E, anche fra gli atleti occidentali, quasi nessuno ha espresso la propria opinione sulla situazione dei diritti umani in Cina.
Oppure le espressioni di dissenso, se vi sono state, hanno subito una rigorosa censura.
Nessuno ha raccontato cosa accade in Cina ai dissidenti politici e agli attivisti dei diritti umani, tranne poche ONG, e si è persa così una grande occasione. Lo sport, che dovrebbe evocare e rilanciare messaggi positivi, in questo modo rinuncia al proprio ruolo culturale, appiattendosi su una logica economico-industriale, dove i risultati e il profitto giustificano ogni cosa, anche, forse, i presunti esperimenti di eugenetica cinesi, per selezionare atleti formidabili, o il doping, di cui si è parlato pochissimo, anche perché, a fronte dei 38 record mondiali stracciati a Pechino, la metà dei quali nel nuoto, una cosa mai vista prima, i test anti-doping sono risultati quasi tutti negativi, e solo due medaglie sono state ritirate. Ma non sembra possibile “credere a tutto ciò che luccica” e forse, fra qualche tempo, sapremo come è stato possibile, ai vari Bolt, Phelps, e ai tanti “carneadi” cinesi, ottenere certi risultati così sorprendenti.
A forza di cercarla ostinatamente, ho comunque trovato sui giornali l’unica “uscita” fuori le righe di un atleta partecipante alle olimpiadi, paragonabile forse al pugno teso di Jesse Owens nel 1938 contro il razzismo (di Hitler e del suo stesso Paese): la “confessione” del ventenne statunitense Matthew Mitchan che, prima di partire per Pechino, dove poi ha vinto l’oro nella gara di tuffi dalla piattaforma da 10 metri, rispondendo alla domanda di un giornalista, ha dichiarato serenamente di essere omosessuale, scardinando così il tabù del maschio gay nel mondo dello sport, moderno “tempio della virilità”.
Solo che i media di oggi, decisamente più “controllati” di quanto non lo fossero nel 1936 o nel 1968, hanno oscurato anche questo isolato gesto di ribellione contro le discriminazioni, così come hanno ignorato le paraolimpiadi svoltesi, sempre a Pechino, a settembre. Qui, si poteva riportare l’attenzione sui valori veri dello sport, sulla sua capacità terapeutica per il corpo e per la mente, così come la mia esperienza personale di sportivo dilettante mi ha insegnato.
Ma i “diversi”, almeno nella convinzione di chi controlla l’informazione, non sono “telegenici”, e sono anzi destabilizzanti rispetto al connubio sport-consumismo, forse perché, Pistorius a parte, fanno riflettere sulla “vanità dei valori o dei beni che gli uomini cercano con ogni mezzo di ottenere: ricchezza, fama, onore”, e il consumatore non deve riflettere, ma deve agire d’istinto, seguendo acriticamente le indicazioni e i condizionamenti degli spot pubblicitari!
Venerare acriticamente la propria maglia/divisa/bandiera, e odiare l’avversario: qui è anche il seme della violenza, nello sport e non solo.
Tutto il contrario di ciò che dovremmo insegnare ai giovani: la cultura sportiva di un popolo dovrebbe educare alla convivenza civile e ai valori veri dello sport: lealtà, correttezza, rispetto delle regole, tenacia e conoscenza dei propri limiti, umiltà e capacità di accettare le sconfitte, rispetto per l’avversario.
Nello sport professionistico, invece, prevalgono ormai gli interessi economici e le esigenze di spettacolo, tanto che anche i politici spesso sfruttano la popolarità data dallo sport per perseguire i loro fini.
E la partecipazione di massa allo sport, sempre più, per effetto del deciso intervento dei media in favore degli interessi degli sponsor si trasforma: dalla pratica diretta al ruolo di spettatore, o di consumatore, di beni prodotti, anche in Cina, sfruttando il lavoro dei bambini, oppure di sostanze dopanti, diffuse purtroppo anche fra i dilettanti e gli amatori, dove peraltro i controlli sono semplicemente inesistenti. Infine, anche in Italia, è ormai dilagante la nuova frontiera del business sportivo: le scommesse, legali e non.
In questa metamorfosi negativa si può anche leggere un parallelo con la politica, che è ormai un “campo di gioco” per professionisti, dove i cittadini non sono altro che tifosi e dove, per un “ingaggio” più alto, si cambia “squadra” con molta disinvoltura.
Per le elezioni legislative ci hanno tolto anche la possibilità di esprimere voti di preferenza, e poi hanno fatto in modo di rinviare il referendum che era stato ottenuto per modificare questo schiaffo alla democrazia, magari con l’intenzione di lavarci un altro po’ il cervello e abituarci a tale modalità di “non-voto”, che ora vorrebbero estendere anche alle europee; quindi gli eletti sono già decisi a tavolino, prima ancora che si vada a votare, così come le “liste/squadre” che scendono in campo le decide il “partito/allenatore”, quasi sempre sulla base della fedeltà e, l’elettore/spettatore/tifoso, non può far altro che parteggiare per l’una o per l’altra squadra.
Allora, anche sul piano civico e sociale, dobbiamo sperare che possa essere ritrovato uno spirito sportivo, e per questo, riprendendo quanto già avevano compreso i greci, e come ci ha ben ricordato il poeta latino Giovenale, è necessario che la scuola non trascuri la “cura del corpo” e quindi l’educazione degli studenti alla salute fisica e psichica, dando il giusto spazio alla pratica sportiva dei nostri giovani, magari senza ricorrere alle sponsorizzazioni delle aziende produttrici di merendine “obesogene”.
Questo processo di educazione allo sport è fondamentale e non più rinviabile, vista anche la dilagante violenza negli stadi, e perché, anche a livello dilettantistico, da alcuni anni, pure ai livelli più bassi, soprattutto nel calcio, si gioca se e dove si guadagnano più soldi, i bambini vanno sempre meno a giocare all’aria aperta, preferendo, con la “complicità” dei genitori, televisione e videogiochi, e, se praticano una qualche disciplina sportiva è perché i genitori li iscrivono, a pagamento, alla scuola calcio, o in palestre e piscine private che suppliscono, per business, alla carenza di strutture pubbliche, soprattutto scolastiche. Tuttavia, nelle “scuole calcio”, anche per inadeguatezza degli istruttori, che quasi mai hanno seguito corsi specifici, e per il solo fatto di aver “giocato a pallone” pensano di poter diventare allenatori, sovente si insegnano solo tecniche di gioco e competitività/aggressività, perché le vittorie sono in realtà un mezzo per aumentare il prestigio della società e per soddisfare i genitori delle “giovani promesse”, e non il sano risultato del lavoro fatto sul campo di allenamento. E quando i bambini capiscono che non diventeranno campioni strapagati e venerati, come vorrebbero i loro genitori, smettono del tutto di fare sport e si dedicano ad altro.
Lo sport fa bene, ma può fare anche molto male. Ha grandi potenzialità, soprattutto per la prevenzione e la riabilitazione dei disagi sociali, ma anche contraddizioni, come hanno efficacemente mostrato anche numerose opere letterarie e cinematografiche che si sono ispirate a vicende sportive. Comunque rappresenta sempre uno straordinario strumento educativo e di socializzazione, soprattutto per i bambini, ma anche per gli amatori e appassionati praticanti: nonostante i sacrifici e gli “acciacchi”, atleti di tutte le età praticano sport per sentirsi in forma e per il bisogno inconscio, che tutti hanno, di sentirsi ancora “fanciulli”, di continuare a “giocare” con la spensieratezza dei bambini, e, con lo stesso entusiasmo di quando giocavano in strada o nei cortili. Interminabili partite a pallone iniziavano dopo la scuola e finivano spesso quando era già buio, o quando ci sequestravano il pallone! Nessuno voleva perdere, ma non c’era bisogno di arbitri o moviole: non era certo un rigore a decidere una partita, ma il talento e la grinta dei giocatori in campo. Magari si litigava, ma poi si tornava a casa amici come prima, aspettando con impazienza la rivincita.
Una “partita a pallone” era come un rito, e la vita è come una partita: bisogna giocare per vincere, mettendo in campo tutte le proprie qualità, non solo quelle atletiche, e con il massimo impegno, con lealtà e rispetto per compagni ed avversari. In questo modo, facendo sport e divertendosi, si imparava a “stare in una squadra”, accettandone anche regole e limitazioni personali, insomma ci si allenava a “lavorare insieme agli altri”, condividendo sogni e paure, vittorie e sconfitte.
Ogni giocatore, anche il più “scarso”, anche chi è stato messo momentaneamente “in panchina”, deve saper aspettare il suo “momento di gloria”, e oltre a gioire delle vittorie, bisogna saper accettare le sconfitte, perché vincere non è la cosa più importante: quello che è importante è esserci, avere fiducia in se stessi, sapersi mettere in gioco, superando la paura di non farcela e impegnandosi per raggiungere un obiettivo prefissato, migliorando giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, partita dopo partita.
In questo senso lo sport ha un enorme valore sociale e, anche la politica deve impegnarsi affinché lo possa esprimere, soprattutto a livello giovanile, con investimenti adeguati in strutture e formazione, e con aiuti economici alle società dilettantistiche, perché lo sport sia sempre più praticato e meno “consumato”.

Nessun commento:

Posta un commento

Lettori fissi

Archivio blog

Informazioni personali

La mia foto
Questo è il mio blog più personale. Sono un ingegnere, laureato nel 1990 presso l'università degli studi di Napoli, orgoglioso dipendente della P.A., felice di poter svolgere un servizio di pubblico interesse, ed impegnato anche nella diffusione delle tematiche che più mi appassionano: difesa dei BENI COMUNI, sostenibilità, bioarchitettura, protezione civile, partecipazione democratica ed etica sociale e professionale.